Tranquilli, sì, lo so che sono in ritardo ma in questi giorni sono piuttosto incasinata…
Siamo giunti al centesimo articolo.
Forse per qualcuno sarà un dato davvero insignificante, di poco conto ma per noi è ben diverso. In due anni e mezzo che esiste questo blog, abbiamo dato noi stessi per scrivere di ciò che ci appassiona in modo leggero, soggettivo ma completo. Le nostre sono per lo più “recensioni” ma lo metto tra virgolette, questo perché ciò che scriviamo non può essere paragonato ai veri articoli di recensione e critica che si trovano in giro per il web. Non è nemmeno il nostro obbiettivo uguagliare quegli scritti pieni di dettagli e tecnicismi. Questo angolo nella ragnatela infinita che è internet è solo una specie di diario/archivio di ciò che pensiamo, facciamo e amiamo. Lo abbiamo ripetuto un sacco di volte ma non ci stancheremo mai di farlo; noi cerchiamo di essere il più possibile seri, meticolosi e completi ma rimaniamo comunque dei semplici appassionati che amano scrivere. Immaginate questo posto più come un raccoglitore pieno zeppo di fogli, immagini, bozze, pensieri, ecc; il tutto però più preciso, ordinato e rigoroso.
My Mad Dreams deriva proprio da questo: siamo come una mente collettiva, piena di sfaccettature, che ha il bisogno di dire e creare. Qui i nostri sogni più oscuri e segreti possono prendere forma. E, in fondo, tutti i creativi sono un po’ pazzi.
Ciò che oggi voglio condividere con voi non è il solito articolo/recensione.
E’ qualcosa di personale. Un racconto su una vicenda realmente accaduta alla sottoscritta.
Perché ne parlo?
Perché ne sentivo il bisogno.
Sentitevi liberi di leggere o di ignorare completamente quanto c’è scritto qua sotto.
A presto con la prossima recensione.
Ero sempre l’ultima a cambiarmi; le dita andavano lente mentre mi sbottonavo la maglietta, allacciavo le scarpe o infilavo i calzetti. Scosse di sensazioni partivano dai polpastrelli e mi attraversavano il corpo come corrente elettrica. Spesso rabbrividivo e stringevo i denti; dovevo concentrarmi ma era così difficile.
Per questo ero sempre l’ultima.
Per questo un giorno si scordarono di me.
Lì capii, per la prima volta, che c’era qualcosa che non andava.
Tutti i miei compagni, vestiti e sistemati, avevano abbandonato gli spogliatoi con in spalla le borse. Io dovevo ancora infilarmi i pantaloni e le scarpe.
Non ero mai rimasta sola; cominciai a sbrigarmi ma più mi agitavo e più il corpo non mi obbediva.
Uscii in corridoio trascinando la borsa e notai l’orribile silenzio.
Non c’era più nessuno. Se n’erano andati e ben presto scoprii di essere rimasta chiusa dentro la palestra.
Tenete presente che mancavano quindici minuti al suono della prima campanella, quella che segnava la fine delle lezioni. Quella che ti diceva che era il momento d’infilarsi il giubbetto, caricarsi in spalla lo zaino e mettersi in fila.
Cinque minuti dopo avrebbe suonato la seconda campanella.
Da quel momento si sarebbe scatenato il caos.
E io ero chiusa in palestra.
E io ero stata dimenticata.
In quel momento sentii dentro di me il primo frammento rompersi.
Cominciai a camminare avanti e indietro, sbattendo la borsa ovunque e chiamando aiuto. Nessuno mi rispondeva. Andai avanti così per molto tempo. Non ricordo nemmeno precisamente, ma non posso scordarmi il momento in cui arrivò il suono della prima campanella.
Dentro di me sentii esplodere una bomba. A quel punto lanciai un urlo di puro terrore e iniziai a piangere. Urlavo e piangevo.
Davo i pugni alla porta tanto da farmi male.
Ero fuori di testa.
Ogni sensazione veniva moltiplicata per mille.
I vestiti che avevo addosso si fecero improvvisamente soffocanti; credo che avrei potuto strapparli se non fossi stata abbastanza impegnata a urlare.
Ero terrorizzata. Mai avevo provato una sensazione del genere.
All’improvviso sentii una voce, la serratura scattò e io aprii la porta.
Davanti a me c’era la bidella.
Non mi ricordo se mi disse qualcosa ma io la ignorai completamente.
In lacrime, tremante, cominciai a camminare, trascinando la borsa.
Mentre piangevo disperata osservavo tutti gli studenti della scuola in fila. Avvolti nei loro caldi giubbotti, con i pesanti zaini in spalla, mi guardavano. Io passavo accanto a loro come un fantasma in pena.
Venivo totalmente ignorata e intanto non riuscivo a calmarmi.
Posso ricordare oltre cento paglia di occhi che mi osservano.
Posso ancora vederli; alcuni ridono, altri parlano, sussurrano, fanno rumore, sbattono e strisciano i piedi.
Dentro di me arrivavano una cacofonia di suoni indecifrabili mentre ogni tessuto dei miei vestiti si era trasformato in carta vetrata.
Il panico lasciava posto alla vergogna. Il tremore all’odio. Il pianto al silenzio.
Entrai in classe, dopo aver attraversato tutto il corridoio stracolmo di bambini.
Presi il mio zaino, infilai il giubbetto e mi misi in fila.
Completamente ignorata da tutti, la crisi lasciò spazio al dolore.
Dentro di me nacquero le prime domande.
I dubbi presero forma e non capii più chi ero.
Solo di una cosa ero certa: a nessuno importava di me.
Ero una tomba di emozioni.
Quindi chi avrebbe saputo di questa storia?
Nessuno.
Non ne parlai ai miei genitori, se non ben quindici anni dopo.
Di solito in pubblico preferivo sprofondare nel silenzio.
Questa fu la mia prima crisi fuori casa e la prima così violenta.
Ma l’unica cosa che potei fare allora è sentirmi un’idiota.