Amon – The Dark Side of the Devilman

Io adoro Devilman. E’ uno dei miei manga preferiti, ha avuto una grande importanza per la storia del fumetto e, nonostante certi difetti, parla di tematiche importanti che riescono a essere ancora attuali come l’odio e la paura del diverso. Ed è anche uno dei miei piccoli traumi personali insieme all’Eclissi di Berserk, Martyrs e Cannabal Holocaust.

Sono sempre curioso di scoprire nuovi lavori riguardanti quest’opera. Per il momento, l’ultimo lavoro uscito sulla figura di Devilman è Devilman Crybaby, una serie animata basata sul manga di Go Nagai, prodotta da Netflix e diretta da Masaaki Yuasa. Qui il regista si prende, giustamente, delle libertà sulla storia originale ma rimanendo fedele sul contenuto e regalandoci finalmente una trasposizione fantastica del manga.

Però oggi non parleremo di questa piccola perla (non preoccupatevi, ho intenzioe di farci una recensione); ciò di cui voglio parlare è di un manga di sei volumi pubblicato per la prima volta nel 1999 in Giappone e arrivato in Italia nel 2005.
Ecco a voi Amon – The Dark Side of the Devilman, scritto e disegnato da Yuu Kinutani.

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Attenzione!
Consiglio la lettura di questa parte dell’articolo solo a coloro che hanno letto Devilman dato che sarò costretto a fare spoiler sull’opera originale.

Trama:
Gli eventi di questa nuova serie sono ambientati dopo la morte di Miki e prima dello scontro finale tra i Devilman e i demoni; qui ci verrà narrato cosa è successo in quel lasso di tempo. Inoltre conosceremo il demone che risiede dentro il corpo di Akira: Amon.

Queste sono le premesse del manga ma la storia non si limiterà a mostrarci quel determinato momento e questa è una cosa che mi ha sorpreso in senso positivo.
Infatti verremo catapultati anche nel passato, ai tempi in cui i demoni dominavano la terra. Oltre ciò il mangaka reinterpreterà alcuni eventi e personaggi creati da Go Nagai.
Il lavoro che ne viene fuori alla fine è purtroppo altalenante. E credo che questo sia il termine migliore per descrivere questo manga.

Incominciamo dalla storia.
Nel primo volume si parte con Akira che, distrutto per la perdita di Miki, perde il controllo e viene sopraffatto da Amon. Ci vorrà l’aiuto di parecchi Devilman per farlo tornare alla normalità.
Nonostante mi abbia divertito non ha aggiunto niente di rilevante alla storia e, anche se inizia in un modo scoppietante, finisce con un nulla di fatto.

Dal secondo al quarto volume invece Kinutani ci catapulterà nel passato. Qui ho trovato molto interessante il modo in cui ci viene introdotta la stirpe delle Siréne e di Sheena, una delle guerriere più forti di questo tipo di demoni. Non sarà stato un lavoro molto originale, ma il modo in cui è stata strutturata questa specie di “società” mi è piaciuto e ancor di più ho apprezzato il personaggio di Sheena, della sua caduta e del viaggio che intraprende per ritrovare se stessa.
Ovviamente ritroveremo anche il demone Siréne, colei che nell’opera originale aveva dato del filo da torcere ad Akira. Il suo personaggio viene reinterpretato e purtroppo non ha convinto per niente.
La Siréne originale era una guerriera fiera, orgogliosa della sua forza e sicura di sé, mentre questa nuova versione è l’esatto opposto; non riesce a prendere decisioni, si lascia scoraggiare facilmente e, nonostante ci venga descritta come un demone molto potente, la vediamo sempre soccombere.

Ciò che mi delude veramente non è il fatto che Kinutani abbia deciso di stravolgere Siréne (anzi, su questo punto sono anche molto aperto) ma il modo con cui lo fa. Non ha un percorso di crescita o evoluzione e rimane uguale fino alla fine. L’autore tenta anche di caratterizzarla a dovere cercando di creare un essere pieno di debolezze e in qualche punto ci riesce pure mentre in altri sembra di assistere alle vicende di un personaggio piatto.

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Negli ultimi due volumi si torna nel presente, poco prima della morte di Miki. Oltre all’apparizione di un personaggio interessante non presente nell’opera originale, vengono affrontati molto bene i dubbi che tormentano Akira, sul demone dentro di lui e se sia ancora umano o no. E in quest’ultima parte il manga recupera parecchio.

Ora però vorrei parlare di due figure importanti; il primo è Amon, il protagonista.
Senza mezzi termini, è un personaggio piatto quanto una tegola. E’ anche peggio di Siréne che almeno aveva un minimo di caraterizzazione. Amon assomiglia molto a un boss finale di serie B: incredibilmente potente, si crede il più forte di tutti, menefreghista e ascolta solo se stesso. Messa in questo modo non sembra neanche tanto male e sicuramente come personaggio poteva funzionare benissimo, ma gli manca la personalità. Ed essendo il protagonista è una cosa molto grave.

Il secondo personaggio di cui voglio parlare è colui che tiene in piedi l’intera storia e che si riconferma ancora una volta il migliore della saga di Devilman: Ryo Asuka/Satana. Su di lui non c’è stata nessuna reiterpretazione (per fortuna), è uguale al Ryo Asuka originale ma qui viene ancor di più approfondita sia la sua figura sia l’amore che prova per Akira. Tra tutti i personaggi di quest’opera è colui che riesce a trasmettere le emozioni più profonde e ad essere il più umano di tutti nei suoi pregi ma specialmente nei suoi difetti.
Però alla fine una piccola differenza c’è: lui è costretto a subire una terribile punizione divina (non vi dico quale). Neanche questa particolarità è molto originale ma è contestualizzata benissimo nella narrazione.

Ora passiamo al lato tecnico, anche questo abbastanza altalenante. I disegni di Kinutani sono particolari e molto belli con tratti spessi, molto precisi e soprattutto ricchi di dettagli. Il design di molti demoni unito a questo tipo di tratto è stata un’accoppiata vincente, creando creature molt belle e inquietanti. In molti punti però Kinutani rende l’espressione dei personaggi molto rigida, non riuscendo a esprimere le loro vere emozioni in determinate situazioni.

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L’autore riesce anche a creare delle scene stupende capace di esprimere al meglio le vicende. Però mentre le singole scene sono costruite molto bene, lo stesso non si può dire di alcune sequenze. I combattimenti a volte sono un po’ caotici ma il vero problema sono i cambi di scena che a volte arrivano in maniera improvvisa e i dialoghi sono un po’ confusionari. A volte alcune sequenze sono stato costretto a rileggerle più volte dato che non capivo bene come si svolgeva l’azione.

Quindi, com’è questo Amon?
Come ho già detto è un’opera con vari alti e bassi, che ha tanti pregi quanti sono i difetti ma che alla fine è riuscita a intrattenermi. La consiglio solo ai fan di Devilman incuriositi da questa storia.

Piccola nota prima di chiudere: da questo manga è stato tratto un OAV chiamato Amon – The Apocalypse of Devilman. Questo è il terzo capitolo della serie OAV della serie Devilman. Penso proprio che parlerò sia di questo che degli altri due in un prossimo articolo.

 

[The Butcher]

8 pensieri riguardo “Amon – The Dark Side of the Devilman

  1. Sono felice di questo tuo post, Butcher, perché mi permette di sottolineare un aspetto sul quale lotto da anni, se non decenni , con tutti gli pseudo-appassionati di fumetto ed animazione giapponese: il conservatorismo fine a se stesso.

    Quando nei primi anni 2000, il grandissimo Federico Colpi, fondatore della d/visual, prestigiosissima casa editrice italo-nipponica, nata dalla scissione della storica Dynamic Italia (dando vita così anche vita alla concorrente Dynit), pubblicò in una splendida veste grafica il manga di Yuu Kinutani, la maggioranza dei lettori tradizionali dell’opera di Go Nagai gridarono allo scandalo o addirittura allo schifo: Kinutani si era, infatti macchiato ai loro occhi del reato di lesa maestà, rovinando, a loro dire un perfetto capolavoro fumettistico quale era considerato il Devilman del maestro Go Nagai; la stessa identica cosa si è verificata recentemente (i tempi cambiano m al’incapacità del grand epubblico di evolversi è restata la medesima) con l’anime Devilman Crybaby, diretta da Masaaki Yuasa, per la quale si è replicata l’ondata di sdegno, ovviamente, ma questo tu lo sai, solo dettata dall’ignoranza.

    Perché tutto questo? Sremplicemente perché il pubblico giapponese è abituato a i continui cambi di stile, sia grafico che narrativo, a cui i loro characters storici sono soggetti, perché il loro mercato fumettistico e di animazione è un vero vulcano in piena eruzione e dal dopo guerra ad oggi la sua linfa vitale non solo non ha accennato a spegnersi ma sta persino vivendo continue primavere di rinnovamento; inoltre, anche la serialità stessa è concepita dai mangaka e dai loro lettori come una filosofia narrativa dove il cambiamento e la trasfomazione fanno parte della sua esistenza, a costo di stravolgere compeltamente l’opera di partenza.

    Il pubblico italiano, ma più in generale quello occidentale, invece, è abituato ai rinnovamenti solo parziali, alla filosfia di proseguire sulla vecchia strada vincente, come avviene per il nostro fumetto popolare di eccellenza ovvero quello bonelliano, dove resistono figure immarcescibili priove di evoluzione, con l’eccezione del character di Dylan Dog (oggetto di un cambiamento davvero epocale, operato da Roberto Recchioni in modo coraggioso e che gli ha infatti attirato non poche critiche dalla vecchia guardia reazionaria).

    Tornando ad Amon (grazie, tra l’altro di aver parlato di come l’opera modifichi il suo stile tra la prima e la seconda metà!), Kinutani ebbe il coraggio nel 1999 di trasformare non già la storia ma lo stile narrativo (e così accadrà ovviamente anni dopo con l’adattamento animato dello stesso manga), ma mentre in Giappone hanno apprezzato quella viscerale dipendenza narrativa al testo originale (è impossibile leggere Amon in modo a se stante da Devilman, perché in ogni salto nel passato, che la storia compie in continazione ed in modo volutamente caotico, il narratore usa in modo sfacciato i riferimenti alle vicende ed ai personaggi narrati da Go Nagai, come farebbe un profeta con il verbo divino), in Italia tutta questa libertà è stata vista come un tradimento della perfezione: ciò che era stato fatto con Devilman e con Grendizer era il verbo intoccabile, una sorta di canone da cui non si poteva uscire ed invece, come hai descritto tu benissimo nella recensione, Kinutani ci esce e ci esce alla grande!

    Il conservatorismo di coloro che in Italia hanno conosciuto l’animazione giapponese con gli adattamenti dei romanzi sentimentali di fine 800 (stle Heidi) ed i Robot anni ’70 ed ’80  in stile Danguard o Goldrake si esplica attraverso una specie di cristallizzazione dell’immaginario di quel pubblico, tale che impedì, ad esempio, di cogliere l’enormità del progetto Evangelion di Hanno (ancora mi ricordo sulle riviste e nelle fumetterie le ironie di chi definiva quell’anime «quello dei robot con le scarpe»…) e tutt’ora impedisce di capire cosa accade ad un mondo in continua espansione, eccetto ovviamente lo stile Shonen che da Dragomball a Naruto vive di continui duelli, con una filosofia da cabinato di sala-giochi molto ben comprensibile asgli occidentali.

    La verità è che Devilman ed Amon sono due capolavori, diversissimi e distanti, ma che si rispettano e che narrano la stessa storia, lo stesso mondo demoniaco e che si completano a vicenda: due facce della stessa medaglia, due metà della stessa mela, laddove Amon porta all’esasperazione le tendenze ed i temi già presenti nell’opera di Go Nagai ovvero gli spiriti, l’ostentazione del corpo inteso come oggetto di martirio e mutilazione, nonché una piena disinibizione sia sessuale che aggressiva.

    Se non ci fossi tu, caro Butcher, temo che tutto questo si smarirebbe per sempre, come le fanose lacrime nella pioggia del monologo del replicante in Blade Runner

    Grazie di scrivere e perdona il mio voler sempre pontificare, ma sono solo più vecchio!

    1. Grazie mille per il commento. Come te io non sono contrario a varie reinterpretazioni di certe opere o anche di certi personaggi. L’esempio perfetto lo troviamo con le trasposizioni cinematografiche di libri. Per la precisione mi riferisco a pellicole come Shining o Blade Runner (dato che hai citato quella magnifica scena) che si discostanno molto dall’opera originale. In entrambi i casi Kubrick e Scott hanno creato una loro visione del mondo e hanno cambiato certe passaggi dei libri. E sono felice che abbiano fatto questa scelta perché altrimenti non avremmo avuto queste due opere d’arti. Ma comunque c’è stato un certo rispetto per quanto riguarda lo spirito dell’opera originale e questa è una cosa da non sottovalutare.

      Ovviamente dipende anche dalla persona che decide di cambiare le cose. Per esempio in Amon se ci fosse stato qualcuno di poco professionale rispetto a Kinutani sarebbe venuto fuori un fallimento totale. E la stessa cosa vale per Crybaby. Per quest’ultimo invece provo un enorme affetto e rispetto tantissimo l’operato di Yuasa, si è preso delle libertà creative, ha rimodernizzato molte cose, ha aggiunto e cambiato alcuni personaggi (non lo ringrazierò mai abbastanza per aver reso Miki un vero personaggio), ma ha rispettato lo spirito del manga.

      In molti credono che sia meglio rimanere ancorati a un successo passato ma così si sbaglia. L’esempio perfetto è Pirati dei Caraibi: sai che ha successo e quindi continui a riproporlo nonostante il personaggio di Jack Sparrow sia diventato una macchietta e non ci sia la stupenda regia di Verbinski a rendere il tutto epico.
      E riguardo ai cambiamenti fatti da Recchioni su Dylan Dog, ne sono molto felice. Bisogna cambiare certe cose e mai restare ancorati al passato; prendere esempio e imparare da esso è cosa buona e giusta, ma restare fermi lì è sbagliato (comunque sì, ha cambiato un po’ di cose e ha aggiutno nuovi personaggi interessanti, ma non ha fatto dei cambiamenti così colossali o sconvolgenti come dicevano alcuni).

      Dobbiamo cercare di essere più aperti alle nuove strade. Provare a rischiare a volte. Non sarebbe una cattiva idea.

      1. Sono molto contento sia del tuo articolo, sia della tua risposta al mio commento perché, malgrado la differenza di età, abbiamo molto in comune dal punto di vista di fenomenologia estetica e critica: aldilà infatti dei gusti personali (insindacabili e basati su fattori individuali come le proprie esperienze, gli studi, le amicizie, le letture e tant’altro) una cosa ci accomuna è la mancanza di pregiudizi quando ci approcciamo ad una cosa nuova e questo è essenziale.

        Non sempre ciò che è nuovo è bello ma la critica deve basarsi su altro che non l’adesione ad un canone comodo… Tanto per dire, ad esempio, così come non sono riuscito a gridare al capolavoro per Ladybird, così mi è capitato ieri sera per Hereditary, da molti acclamato come fenomeno solo perché indie ma per me occasione sprecata…
        Mentre con filmoni come It Follows o The VVitch il genere horror era stato davvero innovato, qui lo sceneggiatore e regista Ari Aster ha creato un meraviglioso saggio di maestria (solo la sequenza iniziale è una meraviglia per gli occhi) che conduce lo spettatore per mano in modo possente e sicuro nel mondo delle possessioni spiritiche, per poi, quando arriva il momento di dare spiegazioni tutto naufraga in un caos pasticciato, con soluzioni ridicole che arrivano persino a far sorridere lo spettatore esperto di cinema di genere (come siamo noi due) e se in un film così ti scappa una risatina, beh, vuol dire che il regista qualcosa lo ha sbagliato di brutto!

        1. Neanch’io considero Lady Bird un capolavoro ma un ottimo film. Adoro The VVitch e It Follows anche se ho amato alla follia perle come Babadook. Per quanto riguarda Hereditary non posso ancora dare un’opinione a riguardo ma oggi vado a vederlo con Shiki e, se riesco, ti farò sapere la mia opinione.

          1. Sono stato precipitoso ed ho omesso un dettaglio essenziale: senza fare spoiler della trama, ti dico invece che fate ultra-bene a vederlo!!!

            Vedi, io quando sparo certi giudizi so con chi parlo e nel tuo caso (sarebbe meglio dire “vostro”, visto che condividete molte visioni) mi permetto di giocare con la fascia alta della cinematografia dell’orrore… Come ben sai, infatti, da anni un certo cinema indie si è avvicinato al genere horror creando il cosiddetto cinema elevated horror, il che è stato meraviglioso ma anche pericoloso, perché da un lato ha permesso di fuggire dalle derive idiote di un certo horror dal taglio perbenistico e salvifico (muiono gli stronzi e si salvano bambini e donne in cinta), ma dall’altro si apriva la porta a quegli intellettuali che di vero horror non sanno nulla, che hanno sempre temuto di sporcarsi le mani e che pensano che una patina di politica liberal possa salvarli dal gore, ma chi invece, come voi e me, sa che anche un film importante come Get Out non sarebbe potuto esistere senza The People Under the Stairs (La Casa Nera) di Craven, allora può capire il genere elevated, nato con Martyrs, proseguito con Sauna e poi recentemente con The VVitch, The BabadookThe invitation, It follows, Goodnight mommy, etc.

            Per qualunque altro spettatore, il film di Ari Aster è un dramma della follia che nasce da lutti familiari e incoffesabili segreti terrificanti, ma per gente come noi è un progetto filmico incorniciato da un grande occhio fotografico, che fino a metà sceglie di non spiegare e poi quando spiega un po’ si perde: se restava criptico e silenzioso sfiorava il capolavoro assoluto.

            Ho apprezzato molto anch’io Ladybird, ma laddove il cinema indie di Sean Baker, ha creato un gioiello di sincero cinema moderno con lo stupendo The Florida Project, quello della Greta Gerwig ha giocato un po’ sporco con leccate di sedere alla critica cinematografica tradizionale.

            Adoro che tu e Shiki andiate al cinema stasera a vedere Hereditary, io ci tornerò Sabato, perché alcuni dettagli della costruzione (gli abbinamenti di coloro dei singoli perosnaggi ed altre astuzie della prima metà del film) abbisognano di una seconda visione.

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